I NOSTRI GRANDI
Gen. Giuseppe Palumbo
Divenne Comandante della Scuola Militare di Paracadutismo dopo leggendarie imprese di guerra in Africa. Conquistò il forte di Harrington ed ebbe la soddisfazione di ammainare personalmente la bandiera inglese. Catturato, fu protagonista di ben 13 evasioni: drammatica quella che lo costrinse a nuotare per sette ore nell'oceano, storica quella che dal Kenya lo condusse in Italia.
Di possedere un coraggio al limite della temerarietà, lo scoprì a 12 anni ne. quando, per far breccia nel cuore di una ragazzina di cui si era innamorato, percorse l'intero cornicione al quinto piano del palazzo dove abitava, su un lo monopattino rischiando ad ogni curva di sfracellarsi al suolo!
Da allora ad oggi (ha felicemente ha girato la boa dei 84 anni) la vita del generale paracadutista Giuseppe 1° Palumbo è sempre trascorsa all'insegna delle imprese più clamorose e stravaganti, costantemente al confine tra temerarietà e incoscienza.
Comandante di bande di colore in Africa durante l'ultima guerra, autore di colpi di mano leggendari (come la conquista del munitissimo fortino inglese di Harrington), protagonista di ben tredici evasioni di cui cinque importanti (drammatica quella che lo costrinse a nuotare per sette ore nell'oceano infestato di pescecani; "storica" quella che lo condusse dal Kenya all'Italia con una fuga da Guinness dei primati di ben ottomila chilo metri!); domatore di tigri e leoni; paracadutista spericolato.
Nel dopoguerra nè il passare degli anni nè le responsabilità del grado (fu comandante della Scuola militare di paracadutismo) attenuarono il suo gusto per l'avventura e per le iniziative provocatorie che scatenarono polemiche anche a livello nazionale come quando affrontò a ceffoni un giornali, sta che aveva accusato ingiustamente i suoi paracadutisti o quando restituì le al decorazioni al valor militare al presidente Pertini in segno di sdegnata protesta.
Quando nel '73 concluse la sua carriera, volle celebrare l'avvenimento con un gesto spettacolare: "Feci un lancio a Vicenza con la pattuglia acrobatica in caduta libera da tremila metri per chiudere nell'aria la mia vita militare. Così come nell'aria spero un di giorno di lasciarci le penne ".
Figlio di un ufficiale di cavalleria, Giuseppe Palumbo fece il corso allievi ufficiali nel '36 in fanteria e due anni dopo partì per l'Africa orientale partecipando con il II Battaglione Coloniale ai cicli di operazioni di guerra nel territorio del Governo dei Gallo e Sidano ottenendo tre croci al merito di guerra e la decorazione di cavaliere dell'Ordine coloniale della Stella d'Italia.
L'impresa più impegnativa fu l'annientamento della banda di Marfù Tafarrà che aveva tenuto in scacco un intero battaglione.
Scoppiato il secondo conflitto mondiale, l'allora tenente Palumbo si rese protagonista di leggendari colpi di mano al comando di bande indigene. Il più clamoroso fu la conquista del munitissimo forte inglese di Harrington dopo sei giorni di furiosi combattimenti.
"Prima di poter conquistare il forte ‑racconta Palumbo ‑ bisognava annientare la resistenza di Dirsale, un paesino proprio ai piedi di Harrington. Mentre i vari battaglioni si susseguivano negli assalti, io ero di riserva con i miei uomini. Stanco di questa attesa snervante, mi presento al Comando attacco, dal col. Cicinelli, e mi offro volontario per occupare il paese con la mia banda. Il col. Cicinelli mi dice, ridendo, che in Africa i manicomi ancora non c'erano, facendomi capire che la mia proposta era pazzesca.
Mi dà comunque via libera e io gioco la carta della sorpresa e della psicologia: a notte, dopo una giornata di intensi combattimenti, i soldati, spossati, avvertono logicamente un calo di tensione. lo approfitto di questa situazione e, con pochi uomini, lancio in piena notte un attacco violentissimo con micidiale lancio di bombe a mano.
La sorpresa funziona, i difensori di Dirsale abbandonano il paese e cercano scampo nel vicino forte di Harrington".
Il primo obiettivo è raggiunto, adesso resta il compito più arduo. Palumbo e i suoi uomini restano imbottigliati in prima linea "rigettando ripetuti contrattacchi nemici ‑ come riporta la motivazione del passaggio di Palumbo in S.P.E. per meriti di guerra proprio in virtù di quell'impresa ‑ e resistendo sul posto per tre giorni consecutivi nonostante i furiosi bombardamenti avversari effettuati sia da terra sia dall'aria. Infine al quarto giorno, ricevuto l'ordine di assaltare il fortino distante una cinquantina di metri, ci si lanciava a colpi di bombe a mano, mettendo in fuga gli ultimi difensori rimastivi, catturando armi e munizioni".
"Naturalmente il forte non cadde solo per merito del mio assalto ma di tutti gli altri battaglioni impegnati nell'attacco ‑ puntualizza Palumbo ‑ Io però ebbi la grande soddisfazione di entrare per primo e di ammainare personalmente la bandiera inglese che i difensori in fuga non fecero in tempo a porre in salvo".
Come "bottino" personale di guerra Palumbo si prese uno splendido cavallo bianco (l'equitazione è sempre stata una sua grande passione, trasmessagli dal padre ufficiale di cavalleria): in sella a quel destriero veniva osannato come un trionfatore dai suoi ascari rimasti soggiogati dal coraggio che aveva sfoggiato nella conquista del fortino.
La campagna d'Africa, purtroppo, non registrò solo successi: dopo tante ardite imprese, arrivarono i giorni delle amarezze. Caduto prigioniero il suo reparto, Palumbo con un pugno di uomini tentò di raggiungere l'Amba Alagi dove il duca d'Aosta ancora combatteva. Circondato da truppe soverchianti, dopo un aspro combattimento fu costretto ad arrendersi nella piana di Sorfella.
Evaso quasi immediatamente si dava ad azioni di guerriglia con una pattuglia di uomini. Ne fa fede il capo di SM della Somalia col. Luigi Dante Di Marco che, da evaso, organizzava la resistenza nell'Impero.
"Durante il periodo della sua prima evasione ‑ scrive il col. Di Marco nella proposta della concessione di Medaglia d'Argento al Valor Militare al Palumbo ‑ dislocato nel territorio degli Auia a Sud di Harar, insidiò gravemente, alla testa di un pugno di evasi e di indigeni, il traffico militare britannico fra Giggiga e Harar: del che successivamente mi fece cavalleresca menzione lo stesso nemico".
Caduto nuovamente. prigioniero, Palumbo non si diede per vinto e proseguì nella sua serie di evasioni.
La più clamorosa e drammatica avvenne nel febbraio 1942. Rinchiuso nel munitissimo carcere di Berbera, nella Somalia britannica, Palumbo scommise una sterlina d'oro con un sergente inglese addetto alla sicurezza del campo sostenendo che sarebbe riuscito a evadere nonostante le eccezionali misure di sicurezza. E fu di parola. Di notte, dopo aver messo un manichino nel suo letto per ingannare le sentinelle, con l'aiuto di altri prigionieri riuscì a scardinare una finestra, si calò fino a terra grazie a una fune costruita con le cinture dei suoi compagni di cella, eluse la vigilanza dei soldati inglesi e nel buio corse verso il mare obiettivo, raggiungere una delle nostri navi, ormeggiate al largo, inviate in Somalia per far evacuare, sotto sorveglianza inglese, le donne italiane.
Con un coltello tra i denti per difendersi dai pescecani che pullulavano in quel tratto di mare, Palumbo si lanciò in acqua e cominciò a nuotare verso la libertà. Ore di fatica disumana, resa tre menda dal forte vento che spira verso terra; ormai allo stremo, impossibilitato a reggere tra i denti il coltello se lo infilò nella cintura dei pantaloncini. E proprio a quel banale, forzato cambiamento di posizione, il generale Palumbo deve la vita.
"Sfinito per la fatica ‑ racconta ‑stavo lentamente affondando quando , per un movimento brusco, la punta del coltello mi si piantò in una natica. Il dolore mi fece rinvenire: con uno sforzo disperato ripresi a nuotare e raggiunsi stremato la nave italiana".
Sette ore trascorse a lottare contro la corrente avversa l'avevano però sfinito sicché non riuscì ad afferrare la corda che un marinaio italiano gli aveva lanciato intimandogli silenzio per non farsi scorgere dalle sentinelle inglesi che erano a bordo del Vulcania.
"Tiratemi su con una corda a due capi, urlai ai marinai ‑ racconta Palumbo‑ Ma la mia voce attirò l'attenzione di una sentinella inglese che si affacciò dal ponte sparando un colpo a scopo intimidatorio. Poi puntò il fucile verso i marinai italiani costringendoli a mollare la corda. Per la rabbia e la disperazione riacquistai le forze e tornai a nuotare dirigendomi al largo. Ad un tratto sentii alle mie spalle colpi di pistola. Credevo volessero uccidermi, invece cercavano solo di farmi desistere dalla fuga e salire a bordo. Tirato su a braccia dagli inglesi, appena misi piede sulla nave mi sentii mancare le forze e, detta alla napoletana, sconnocchiai! Ciò fece sorridere un marinaio inglese che mi aveva aiutato ma io mi sentii offeso e tirai fuori il coltello. Ad onor del vero, scendendo dal ponte comando all'infermeria, vidi riflessa la mia immagine in una grande specchio e scoppiai anch'io a ridere! Sembravo infatti un indiano sul sentiero di guerra: tutti i graffi che mi ero prodotto per districarmi dai reticolati al campo erano diventati lividi e gonfi, avevo i capelli ritti in testa e una magrezza impressionante.; insomma, nell'insieme sembravo uno spaventapasseri!".
Appena rifocillato, Palumbo fu fatto sbarcare e venne riportato al campo di prigionia dove il sergente, con tipico fair play inglese, pagò la sterlina della scommessa.
L'episodio è citato, con notevole risalto, anche nel volume "Lunga fuga verso il sud" del principe Giovanni Corsini protagonista, a sua volta, di evasioni leggendarie. Almeno una decina di libri, comunque, fanno riferimento alle imprese africane di Palumbo.
Un altro libro, "Africa senza sole" di F.G. Piccinni, racconta dettagliatamente la tredicesima e ultima fuga di Palumbo, quella che lo riportò finalmente in patria.
Ridotto a fare il contrabbandiere di grappa che distillava clandestinamente nel campo da cui evadeva di notte per andarle a vendere e procurarsi così denaro per la fuga, Palumbo finiva spesso nei guai. "Il colonnello inglese ‑é scritto su "Africa senza sole" ‑vedendolo comparire continuamente al processo che si teneva per ogni infrazione, alla fine gli disse che era stufo di vederlo. Palumbo calmo gli rispose: "Si immagini io, signor colonnello, che la sopporto da oltre cinque anni!" Fu così che il colonnello inglese dette ordine di metterlo in coda a tutti gli elenchi di rimpatrio.
Ma quello scappò di prigione, raggiunse Nairobi, quindi Mombasa, penetrò nel porto scavalcando di notte la cancellata guardata da sentinelle e si portò su un isolotto all'imboccatura del porto.
Da qui, quando uscì il primo piroscafo carico di prigionieri, si buttò a nuoto incontro alla nave che lo raccolse e portò in Italia".
Concluso il conflitto mondiale e ottenuta una promozione per meriti di guerra, il cap. Palumbo fu assegnato al 1 ° Reggimento Granatieri.
"In quel periodo ‑ racconta ‑ venni a contatto con diversi paracadutisti, gente che si dava un sacco d'arie ma veramente in gamba! Tanto che decisi anch'io di diventare paracadutista militare: mi rivolsi al generale Frattini e nel '48 potei fare il corso e ottenere finamente il brevetto".
Appena il tempo di cimentarsi nei primi lanci, poi di nuovo in missione in Somalia dove di distinse per coraggio e decisione come gli riconobbe il comandante di Mogadisco: "Nella prima metà di aprile il capitano Palumbo ha svolto un'importante missione in Migiurtinia per il reclutamento di soldati nativi dimostrando di fronte ad impreviste difficoltà sorte per atteggiamento ostile di alcuni gruppi della popolazione, comportamento calmo ed energico. In questa occasione ho avuto modo di vederlo personalmente all'opera nella zona di Gallacaio".
Rientrato in Italia nel '52 e promosso maggiore, fu finalmente assegnato alle truppe paracadutiste: "Per la precisione, al Centro Militare Paracadutisti (poi divenuto C.A.PAR.) comandato dal col. Caforio ‑ puntualizza ‑ Una denominazione che non mi entusiasmava; protestai, mi diedi da fare per ottenere la vecchia denominazione di Scuola Militare Paracadutismo e alla fine la spuntai grazie all'intervento del gen. Aloja Capo di Stato Maggiore dell'Esercito".
Dopo una rischiosa esperienza in Libano, Palumbo ottenne il comando della Scuola Militare di Paracadutismo. "Proprio in quel periodo ‑ racconta ‑ morirono tre miei paracadutisti per cause mai accertate, una misteriosa epidemia che provocò allarme e polemiche a livello nazionale. Un giornalista di "Paese sera" si permise di scrivere che i paracadutisti prendevano eccitanti per fare i lanci.
Di fronte a questa volgare e vigliacca insinuazione, reagii in maniera assai decisa: mi recai, in borghese, accompagnato da mia moglie, nell'albergo pisano dove era alloggiato quel giornalista e, nonostante avessi un braccio ingessato per tiri incidente di lancio, lo affrontai a schiaffoni mandandolo all'ospedale". Un episodio che scatenò polemiche violentissime.
"Ma ottenni anche vastissima solidarietà ‑ si compiace il generale Palumbo ‑ Sapete chi mi difese con maggior vigore? L'on. Andreotti. "Libero schiaffo in libero stato!" disse l'allora Ministro della Difesa con una delle sue celebri frasi. E in quei giorni, nei palazzi politici e ministeriali fu coniata la frase "ti do un Palumbo!" per indicare uno schiaffo particolarmente violento".
Qualche anno dopo, un altro episodio clamoroso, per i suoi risvolti politici, portò il generale Palumbo alla ribalta dell'attenzione e delle polemiche nazionali: restituì le sue decorazioni al valor militare al Presidente della Repubblica Pertini in segno di protesta.
"Lo feci per protestare contro l'assegnazione della medaglia d'argento al prof. Bentivegna autore dell'attentato di via Rasella che uccise 33 militari altoatesini in divisa tedesca e provocò, per reazione, l'uccisione di 330 italiani alle Fosse Ardeatine perchè l'autore dell'attentato non si presentò alle autorità tedesche. Tra le vittime delle Fosse Ardeatine c'era anche lo zio di mia moglie, il generale di divisione aerea Castaldi Martelli".
Tra una polemica e l'altra, l'allora colonnello Palumbo dava anima e colpo alle sue passioni: il paracadutismo e gli... animali feroci.
Nell'aprile '64 alla testa dei suoi paracadutisti Palumbo stabilì anche il primato militare di lancio contemporaneo ad apertura comandata di 14 persone dalla porta assiale del C - 119. "Il lancio, a cui partecipai ‑ racconta il generale Palumbo ‑ fu ideato e pianificato dal col. Argento che ne curò in maniera perfetta l'addestramento.
Quella squadra fu poi soprannominata la banda del grappolo".
La passione per gli animali feroci, maturata in Africa, prosegui in Toscana, in una villa di amici dove allevò tigri, leoni, puma, leopardi.
Abbandonato l'allevamento delle bestie feroci (per la felicità dei vicini terrorizzati da non infrequenti fughe degli animali!) il generale Palumbo si accontenta oggi della compagnia di meno impegnativi cani: come la celebre Has Fidanken protagonista ‑ ricordate? ‑ di non lontane esibizioni televisive. E con Has Fidanken ben imbragata al petto, il generale Palumbo effettuava spesso lanci da tremila metri, felice e brillante impegno settimanale che contribuisce a trasformare i suoi avventurosi 84 anni in una perenne giovinezza.
Gianni Bezzi
Da FOLGORE n° 1 -1995
MEDAGLIA DI BRONZO AL VALOR MILITARE
'Ardito combattente ed ardente patriota, improntava ogni azione individuale e di reparto con generosa dedizione, affrontando rischi e spingendo al di là di ogni limite, spirito di sacrificio ed .elevato senso del dovere.
Comandante di bande Dubat in pericolosa delicata situazione:per il suo reparto effettuava azione rischiosa con pochi uomini e la conduceva brillantemente a termine sfidando e superando l'insidia
Esempio costante di sprezzo d pericolo e profondo attaccamento al dovere”.
A.O. maggio‑giugno l94l
MEDAGLIA DI BRONZO AL VALOR MILITARE
"Ufficiale di chiare virtù militari non sopportò lo stato di prigionia attratto dal prepotente richiamo al dovere
Dopo successive evasioni compiute in drammatiche circostanze ma fallite per l'attiva vigilanza dei detentori, riusciva, affrontando gravi rischi personali a raggiungere il mare e, dopo lunga perigliosa attraversata a nuoto, a salire su nave che trasportava connazionali coi quali ritornava in Patria.
Esempio d'indomita tenacia e perseverante coraggio”.
A.O. maggio 1942: